jueves, 23 de noviembre de 2023

WILL CLARK E LA COSCIENZA DELL'IMPOSSIBILE


(Testo tradotto dall'originale in spagnolo e pubblicato nel libro "Dime que no fue así, Joe”


Il denaro non è tutto, ma sembra capace di tutto: non compra la felicità ma la imita molto bene. Il denaro sembra recepire i parametri dell'esistenza. Direbbe Salvador Dalí: "Come potrei non amare i dollari se sono qualcosa di mistico e magico?"


Il collezionismo delle figurine di baseball non è esente dal potere del denaro. Non molto tempo fa, una figurina di inizio XX secolo dello short-stop Honus Wagner è stata valutata e venduta per circa un milione di dollari. Cosa penserebbe Honus se sapesse che un'immagine di lui su vil cartone ha generato più reddito di tutti i salari che ha percepito nella sua carriera di più di vent'anni nelle Grandi Leghe?


Da bambino, collezionavo figurine di giocatori di baseball, ma non avevo mai pensato di poter arricchirmi in quel modo. Per un bambino di classe media di una piccola città totalmente appassionata di baseball, possedere l'immagine dei grandi eroi con la loro coppola e il guanto era un'altra cosa: un passaporto per il paese della magia.


Se gli ebrei avevano il Muro del Pianto, i devoti di Guadalupe avevano il colle di Tepeyac, i musulmani la pietra nera della Kaaba e i catalani il Camp Nou, perché noi bambini non avremmo dovuto venerare una figurina di baseball? Ogni uomo ha bisogno di un atto folle per mantenere, a lungo termine, una dose di saggezza collettiva.


Una figurina era considerata l'emblema della tribù dei bambini o del singolo possessore e consentiva di assumere diversi significati. Il senso sacro di una figurina non poteva essere messo in discussione. Chi possedeva l'immagine assumeva la personalità e le abilità del giocatore di turno; ad esempio, la figurina di Doc Gooden garantiva il diritto di assumere il ruolo di gran maestro e di lanciare come titolare nelle partite organizzate in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo; quella di Fernando Valenzuela garantiva uno status di eroe nazionale, superando di gran lunga il sopravvalutato Benito Juárez; la figurina del novellino Mark McGwire garantiva l'onore di essere il quarto battitore della squadra. Naturalmente, nessuno voleva rimanere confinato nello stesso ruolo e c'erano regole per lo scambio (e il furto) delle figurine. Tuttavia, tra noi, una particolare figurina aveva acquisito nel corso degli anni un valore al di là di ogni dimensione per un motivo molto semplice: nessuno l'aveva mai vista.


Mi riferisco alla figurina di William Nuschler Clark, Jr., meglio conosciuto come Will Clark, il talentuoso prima base dei Giants di San Francisco.Will Clark, l'uomo dallo swing perfetto, il Naturale, arrivò secondo al draft dell'85. Will Clark, che nello stesso anno al suo primo turno nelle Minor League mandò oltre la recinzione una palla lanciata da Fernando Valenzuela. Will Clark, che un anno dopo nelle Grandi Leghe, al suo primo turno fece lo stesso contro il sacro campione dello strikeout, l'Express di Refugio, Texas, Nolan Ryan. Will Clark, che nella prima partita della Serie del '89 mandò in paradiso Greg Maddux dei Cubs con un home run solitario al terzo inning. Will Clark, che un inning dopo, con le basi piene, fece vacillare i Cubs e spinse il ricevitore Joe Girardi a parlare con Greg Maddux per consigliargli come lanciare. Will Clark, che leggeva chiaramente le labbra di Joe Girardi dicendo a Greg Maddux: "Fastball alta e dentro." Will Clark, che colpì nuovamente un home run, questa volta con le basi piene. Will Clark, che da allora ha fatto sì che i ricevitori e i lanciatori usassero i loro guanti per coprire le labbra prima di parlare tra loro. Will Clark, che nel quinto gioco della serie contro i Cubs, con il punteggio di 1-1 all'ottavo inning e uomini in base, inviò i Giants alle World Series sparando un singolo nel centrocampo dopo aver resistito a colpi falliti per diversi minuti con un conto di due strike contro il closer stella Micht Williams, la cosa selvaggia.


Ma nonostante il nostro stupore sulle sillabe del suo nome, per noi era un'impresa impossibile ottenere la figurina di Will Clark, perché i pacchetti di figurine (gomma da masticare inclusa) non erano in vendita nella nostra città. Era l'epoca del logoro discorso patriottico, del controllo dei prezzi e della chiusura economica; tutto prima di precipitare esattamente nell'altro estremo: il capitalismo selvaggio della globalizzazione. Di solito, ordinavamo i pacchetti di figurine da conoscenti o parenti che viaggiavano negli Stati Uniti.


Ma un giorno, nel scomparso Videocentro sul Malecón di Culiacán, ho scoperto qualcosa di fondamentale, qualcosa che giustificava da sola la mia esistenza: vendevano pacchetti di figurine di baseball di contrabbando.Costavano dieci pesos (diecimila dei vecchi). Essendo uno studente attento in matematica, non ho perso tempo a tessere la mia strategia: avrei detto ai miei compagni di scuola che un parente stava viaggiando negli Stati Uniti e che, se volevano pacchetti di figurine, costavano dodici pesos; in questo modo, se avessi ottenuto cinque ordini, il sesto sarebbe stato gratis per me. Ed è così che ho finito per acquistare non sei ma dodici pacchetti di figurine. Il profitto non è disumano,forse è la cosa più umana.


Il problema alla fine è stato un altro. Come scegliere due su quei dodici pacchetti? Se avessi scelto male e in uno degli altri fosse apparso Mister Clark, non me lo sarei mai perdonato.

Le disgiuntive devono essere risolte in base alla propria condizione umana: ho aperto tutti e dodici i pacchetti.


Non ricordo in quale, ma c'era: Will Clark nella sua posa signorile, nettamente legata al baseball, in attesa del suo turno al battitore, con le strisce di grasso nero disegnate sotto gli occhi.


Il contatto con il sacro non è privo di conseguenze. Il sé non è più sé stesso, è altro, inafferrabile, o detto in termini di adulti contemporanei lettori delle riviste Maxim, GQ e Men’s Health: il sesso prima del sesso. Così, senza altro, è come mi sono sentito.

Dopo l'epifania, ho proceduto a chiudere accuratamente i pacchetti con nastro adesivo. Il lavoro era delicato considerando un piccolo dettaglio: uno dei destinatari era figlio di uno dei gangster locali.


Non lo so. Sono ancora qui 20 anni dopo e anche la figurina di Will Clark è qui.


WILL CLARK AND THE CONSCIOUSNESS OF THE IMPOSSIBLE




(Text translated from the original Spanish version from the book "Dime que no fue así, Joe")

Money isn't everything, but it seems capable of everything: it doesn't buy happiness but imitates it quite well. Money seems to acknowledge the parameters of existence. Salvador Dalí would say: "How could I not like dollars if they're something mystical and magical?"

Baseball card collecting is not an exception to the reaches of the power of money. Not long ago, a baseball card from the early 20th century featuring shortstop Honus Wagner was appraised and sold for around a million dollars. What would Honus think if he knew that an image of himself on mere cardboard generated more income than the total salaries he earned in his over twenty-year career in the Major Leagues?

As a child, I collected baseball cards, but I never thought of the possibility of enriching myself that way. For a middle-class kid from a small, purely baseball-loving town, owning an image of the great warriors with cap and glove was something else: a passport to the land of magic.

If the Jews had the Wailing Wall, the devotees of Guadalupe had the Tepeyac hill, the Muslims had the black stone of the Kaaba, and the Catalans had the Camp Nou, why wouldn't we children also worship a baseball card? Every man requires the senseless act to maintain, in the long run, the dose of collective sanity.

A baseball card was taken as an emblem of the children's tribe or the possessing individual, allowing for various assumptions. The sacred sense of a baseball card couldn't be doubted. Whoever owned the image assumed the personality and skills of the current ballplayer. For example, Doc Gooden's card granted the right to adopt the rank of a grandmaster and pitch as a starter in organized games at any time, Fernando Valenzuela's card guaranteed a status of national hero, surpassing the overrated stone-faced Benito Juárez, and the rookie Mark McGwire's card ensured the honor of being the fourth batter of the team. Of course, no one wanted to be anchored to the same role, and there were rules for trading (and stealing) baseball cards. However, among us, one particular card had acquired a value beyond all dimension for a very simple reason: no one had ever seen it.

I'm referring to the baseball card of William Nuschler Clark, Jr., better known as Will Clark, the talented first baseman for the San Francisco Giants.

Will Clark, the man with the perfect swing, the Natural, who was second in the '85 draft. Will Clark, who in that same year, in his first Minor League turn, sent a ball pitched by Fernando Valenzuela over the fence. Will Clark, who a year later in the Major Leagues, in his first turn, did the same with the sacred cow of strikeouts, the express from Refugio, Texas, Nolan Ryan. Will Clark, who in the first game of the '89 Championship Series hit a solo home run in the third inning off Greg Maddux of the Cubs. Will Clark, who an inning later, with the bases loaded, struck fear into the Cubs and caused catcher Joe Girardi to go talk to Greg Maddux to advise him on how to pitch. Will Clark, who clearly read Joe Girardi's lips telling Greg Maddux: "High and inside fastball." Will Clark, who hit another home run, this time with the bases loaded. Will Clark, who caused catchers and pitchers to use their gloves to cover their lips before speaking to each other since then. Will Clark, who in the fifth game of the series against the Cubs, with the score tied 1-1 in the eighth inning and men on base, sent the Giants to the World Series by hitting a single to center field after surviving batting fouls for several minutes with a two-strike count against star closer Mitch Williams, the wild thing.

But despite our drooling over the syllables of his name, for us, it was an impossible task to obtain Will Clark's baseball card because the card packages (with gum included) were not sold in our city. It was the era of worn-out patriotic speeches, price controls, and economic closure, all before veering sharply to the other extreme: the wild capitalism of globalization. Usually, we ordered the card packages from acquaintances or relatives traveling to the United States.

But one day, at the vanished Videocentro on the Culiacán Malecón, I discovered something transcendent, something that justified my existence on its own: they were selling baseball card packages on the black market.

They cost ten pesos (ten thousand of the old ones). Being an attentive student in mathematics, I didn't delay in weaving my strategy: I would tell my schoolmates that a relative was traveling to the United States and that if they wanted card packages, they would cost twelve pesos; that way, if I managed to get five orders, the sixth would be free for me. And that's how I ended up buying not six but twelve card packages. Profit isn't inhumane, perhaps it's the most human thing.

The problem in the end was different. How to choose two out of those twelve packages? If I chose wrong and Will Clark appeared in any of the others, I'd never forgive myself.

Dilemmas must be resolved according to one's own human condition: I opened all twelve packages.

I don't remember in which one, but there it was: Will Clark in his lordly pose, purely baseball, awaiting his turn at bat, with black grease streaks drawn under his eyes.

The contact with the sacred isn't exempt from consequences. The self is no longer the self; it is the other, the unattainable, or in terms of a contemporary adult reader of Maxim, GQ, and Men’s Health magazines: sex before sex. That's how I felt, just like that.

After the epiphany, I proceeded to carefully seal the packages with tape. The task was delicate considering a small detail: one of the recipients was the son of a local gangster. Innocent maneuver? Naïve? Reckless?

I don't know. Here I am, 20 years later, and the Will Clark baseball card is still here too.




lunes, 4 de septiembre de 2017

NUEVE ENTRADAS CON JOHN ASHBERY


John Ashbery (“Por dónde Vagaré”, “Autorretrato en un Espejo Convexo”, “Como en un Proyecto del que Nadie Habla”) es un poeta y traductor americano nacido en 1927 en Rochester, Nueva York. John Ashbery se caracteriza por un surrealismo capaz de desafiar la propia lógica del surrealismo. No por nada ha ganado casi todos los premios más importantes de poesía en su país. El Nobel puede llegar en cualquier momento.
Bajo esos antecedentes, presento aquí una entrevista de nueve entradas con John Ashbery. Imaginé con él estas preguntas sobre el béisbol. Imaginé que John Ashbery imaginaba estas respuestas. De ese modo, podríamos acercarnos más a lo (im)posible: Ser don Quijote por un instante.

Mister Ashbery, ¿qué es el béisbol para usted?
JA: El béisbol no es exactamente un deporte, ni siquiera algún tipo de actividad estrictamente física, sino una conciencia, la sustancia más sensible descubierta hasta la fecha para registrar las fluctuaciones de la angustia de la existencia día a día, minuto a minuto.

¿Alguna memoria en particular sobre el béisbol?
JA: Pequeños vislumbres de los estadios neoyorquinos en los años cuarenta. La mente es han hospitalaria albergándolo todo y no te das cuenta, hasta que todo ha terminado, qué poco había que aprender. Veo algún doble play o cuadrangular salvador en Yankee Stadium a través de las cadenas de humo del cigarrillo. El béisbol en su médula invisible está más allá de lo real concreto y de las certezas de vivir y morir.

¿Le gusta ir a los estadios?
JA: De noche. Desde ahí se pueden ver las estrellas y sobre todo nuevas aventuras. Personas-objeto en un diamante eterno. Apenas expresamos nuestras propias ideas ante tal conjunto de movimientos, pero podemos recordar a éstos con tanta facilidad como el día en que nacimos.

(Le pido en ese momento a John Ashbery que me permita tomarle una fotografía. Accede, pero me advierte: “Michaux escribió: «Un hombre y su rostro es un poco como si estuvieran devorándose mutuamente sin cesar.»”)
¿Por qué las personas aman especialmente los cuadrangulares?
JA: Es la historia de cualquiera. Es decir, la historia que cualquiera desearía escribir. Un viaje sentimental ante todo. Despertarse de un sueño para entrar en otro. Nosotros somos ese sueño. No nos hemos movido ni siquiera un centímetro y todo ha cambiado a partir de una pelota bateada con fortuna. Nos perdemos por la vida, pero la vida en forma de ese batazo de algún modo nos encuentra. También hay lugar para salirse de la vida, entendida ésta como un elemento circunscrito a cierta geometría. Sería otra posible metáfora de un cuadrangular.

Albert Camus planteaba el suicidio como el primer problema filosófico. ¿Cómo describir un squeeze play suicida en la novena entrada?
(El rostro de Ahsbery se ilumina)
JA: No se trata de filosofía. Eso debe ser poesía. Desmesura en su justa medida. ¿Sabes? Fue un invento de un manager de los Yankees, Jake Reid. Hasta donde sé, fue intentado por primera vez en la Serie Mundial de 1931. Tocar con corredor en tercera y dos outs. Es volverse un sargazo movedizo en la tarda. Descargas eléctricas apenas se ven al principio. Después explotan en un chaparrón de destellos inmóviles color relámpago. Cada uno de los jugadores piensa: “Nada de esto me sucede a mí”. El itinerario de la apuesta absoluta.

¿Quiénes han sido los más grandes en el juego de pelota? Pienso a manera de límites en una conjunción de ciertos parámetros: poder, brazo y velocidad.
JA: Estás hablando entonces de bateadores. ¿Para qué los límites? ¿Dónde dejas a Cy Young o a Walter Johnson? Bajo tus parámetros me forzarías a mencionar a Mickey Mantle, Joe Dimaggio, Willie Mays y Roberto Clemente. No estoy seguro si ello es lo apropiado, tendría que haber sitio para Babe Ruth o Ty Cobb. Para Jimmie Foxx también, era un fuera de serie. ¿Y cómo calificas la nobleza de Lou Gehrig? ¿Qué hay sobre Hank Greenberg y, más recientemente, sobre Alex Rodríguez? ¿Por qué hablar siempre en pasado? El pasado pesa tanto en nosotros, como si esa memoria se volviera una institución.

Cierto. Si, como señaló Borges, el futuro es la sustancia de la que está hecho el tiempo, pues apenas lo decimos y avanzamos inexorablemente hacia un futuro revestido de presente, ¿cree que la sustancia del béisbol se encuentra en el porvenir y que en consecuencia con el tiempo llegarán mejores peloteros e incluso mejores aficionados?
JA: Lo decía al principio, hay registros cronológicos inmersos, pero la cuestión de la sustancia del béisbol se encuentra más allá de una dimensión temporal. Si no fuese así, ¿cómo explicas los espacios exóticos del béisbol. Hay momentos, pero también lugares aquí y allá; otros más, refrescados en algo complejo como la memoria: a una vez tiempo y lugar. En cuanto a los peloteros del futuro, el desplazamiento resulta algo inevitable. Así todos los que ahora son más que jóvenes resultarán desplazados les guste o no, y sólo los muy viejos o los muy jóvenes tienen la palabra en este asunto. Pero siempre habrá una crónica con destreza acerca de las cosas que los hombres han hecho o dicho. Podemos imaginar un poco sobre un mejor béisbol, podría estar sucediendo afuera ahora mismo, pero de algún modo siempre nos identificaremos con un amor que nos definió por un rato y cuando volvamos atrás unos pasos para mirar de nuevo ese pasado, quizá encontremos la eternidad en ese intervalo.

Ya que menciona al amor… Se suele ligar al béisbol con todo tipo de corrientes románticas. ¿Qué piensa al respecto?
JA: ¿De veras se necesitan comentarios como el nuestro? No lo sé, tendría que implicar algún tipo de vacío. El amor se desvanece hábilmente al final, dejando ¿qué? Un vacío bañado quizá de frescura. Es decir, un nuevo tipo de vacío. Pero el béisbol está, “jerárquicamente” hablando, por encima de lo vacuo. Si ha de establecerse algún nexo entre béisbol y romanticismo, en todo caso éste debería quedar comprendido en aquél, de lo contrario, no sé como ligar el béisbol con una exhortación latina a las manzanas o con una oda al heroísmo de la batalla de Hastings. Si te refieres al movimiento romántico poético es curioso, pues éste surge más o menos en la misma época de los antecedentes más cercanos del béisbol moderno. Ciertas cosas son a la vez demasiados aburridas y demasiado interesantes para hablar de ellas, y ésta debe ser una.

Nos ha llegado el último turno. Del transcurrir de la existencia, ¿se queda con el béisbol?


JA: Sí, entendido el béisbol como una de las caras de la locura. Solos con nuestra locura y nuestra flor favorita.
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jueves, 13 de octubre de 2016

DYLAN EN EL SALÓN DE LA FAMA DEL BÉISBOL


Eterno candidato al Premio Nobel de Literatura, el músico Robert Allen Zimmerman, mejor conocido como Bob Dylan es un fanático del béisbol. La canción “Catfish” de Dylan, pequeña joya que se puede encontrar en el disco triple “The Bootleg Series Volume”, está dedicada al pitcher de los Atléticos y luego de los Yankees “Catfish” Hunter.
Prueba también de la afición beisbolera de Bob Dylan es el ya legendario programa de radio que dirigió el día de su cumpleaños 65, el 24 de mayo de 2006; programa dedicado en su totalidad al Rey de los Deportes.
Dicha transmisión fue incorporada apenas un mes después a los archivos del Salón de la Fama del Béisbol. Y no fue para menos; sólo basta ver la lista de textos y canciones incluidos en el programa:

Take Me Out To The Ball Game - The Skeletons (con ukulele) - (1988)
Baseball Boogie - Mabel Scott - (1950)
Home Run - Chance Halladay - (1959)
Baseball Baby - Johnny Darling - (1958)
Baseball Canto - Lawrence Ferlinghetti
Three Strikes And You're Out - Cowboy Copas - (1960)
The Ball Game - Sister Wynona Carr - (1952)
Did You See Jackie Robinson Hit That Ball - Buddy Johnson - (1943)
Joltin' Joe DiMaggio - Les Brown & His Orchestra (with Betty Bonney)- (1941)
Joe DiMaggio's Done It Again - Billy Bragg & Wilco - (1988)
Don Newcomb Really Throws That Ball - Teddy Brannon Orchestra - (1950)
Newk's Fadeaway - Sonny Rollins - (1951)
Say Hey - The Treniers - (1954)
The Wizard Of Oz - Sam Bush - (2004)
3rd Base, Dodger Stadium - Ry Cooder - (2004)
Heart - Damn Yankees (Original Broadway Cast) - (1955)

Sin duda alguna, los señores del Salón de la Fama tomaron una decisión acertada, aún y cuando tienen otros asuntos pendientes por resolver (¿Pete Rose para cuándo?)
En cuanto a Bob Dylan, más de alguno se habrá de preguntar cuál es su equipo favorito. La respuesta quizá se encuentra en una entrevista que le hicieron para la revista “Rolling Stone”: “El problema con los equipos de béisbol es que todos los jugadores son cambiados tarde o temprano y lo que solía ser tu equipo favorito – un par de jugadores que realmente te gustaban y que ya no están más en el equipo- ya no puede serlo. Es como hablar de tu uniforme favorito. Quiero decir… Sí… Me gusta Detroit, pero pienso que me gusta Ozzie [Guillén] como manager. Y no sé como puede haber alguien a quien no le guste Derek [Jeter]. Preferiría tenerlo en mi equipo más que a cualquier otro.”
En otras palabras, la respuesta de Dylan quizá se encuentre silbando en el viento (blowin’ on the wind, my friend…)

viernes, 16 de septiembre de 2016

SQUEEZE PLAY. MATERIALES PARA UNA TEORÍA DEL SUICIDAMIENTO

Los mitos no son historias para niños, sino que son como lo planteaba Paul Ricoeur relatos racionalizados con base en símbolos. En ese sentido, los mitos se alimentan muchas veces de metáforas para pretender explicar lo que de otra manera no es explicable o, bien, lo que de otra manera sería explicable con un altísimo grado de abstracción. De hecho el lenguaje cotidiano está cargado de metáforas e incluso de mitos, sobre todo de mitos teológicos. Así, los mitos de los distintos pueblos reflejan sus cosmogonías particulares, esto es, sus apreciaciones del mundo y sus preocupaciones filosóficas y espirituales, en donde por supuesto que hay mitos de dominación y mitos de liberación, distopías y utopías, tal y como lo ha registrado Ernst Bloch en los tres tomos de “El principio esperanza”.
En el Béisbol, tanto la filosofía como la teología beisbolera están precisamente repletos de mitos*, lo cual resulta interesante, pues si el Juego de Pelota es una metáfora de la vida, entonces los mitos del Béisbol implican la elaboración de metáforas sobre metáforas, lo cual liga al Béisbol con el arte poético. ¿Y por qué no? Pensemos en un hombre al bate: batear es un acto de barbarie en nombre de la verdad y la belleza. ¿Acaso no es eso la poesía: desmesura en su justa medida?
Tenemos pues que el Béisbol es un juego poético, una sucesión de metáforas finamente trazadas sobre el campo del juego y durante un tiempo indeterminado, pues es un juego en principio sin límite de tiempo (el juego dura lo que ha de durar). Luego, el Béisbol es un juego capaz de tener significados metafóricos, de desarrollar mitos y de plantear problemas de espacio y tiempo, por lo cual el Béisbol es sin duda un juego complejo, quizá la substancia más compleja descubierta hasta ahora para medir las pulsaciones de la vida minuto a minuto.
Esa complejidad nos ofrece una gran riqueza de posibilidades para el pensamiento. Una de esas posibilidades es la discusión de lo que Albert Camus planteaba en “El mito de Sísifo” como el primer problema filosófico: el suicidio. Es decir, el ser vivo pensante, antes de ahondar en cualquier otro problema, debe preguntarse sobre si merece la pena el vivir y sobre qué tipo de vida ha de considerarse digna de llamarse como tal. En apariencia el suicidio es un problema individual, pero Émile Durkheim se encargó de demostrar también su cariz social en la obra titulada precisamente “El suicidio”.

¿Pero qué puede ofrecernos el Béisbol al respecto? En opinión de quien esto escribe, mucho. Una teoría del suicidamiento en el Béisbol permitiría cerrar el círculo del primer problema filosófico e incluso abrir posibilidades para el pensamiento hermenéutico de lo mesiánico y hasta para una filosofía de la liberación, de una forma tal que sea comprensible para las personas en general. No todo mundo anda por ahí planteándose los dilemas del suicidio o de si el día de hoy es un buen día para pegarse un tiro en la sien, por lo cual el Béisbol como actividad cotidiana nos ofrece otras modalidades para acercarnos a las cuestiones citadas. Veamos.
En primera instancia, el Béisbol, en tanto juego, re-presenta, es decir presenta de forma metafórica, en este caso, re-presenta la vida (ya sea la vida ausente o la lucha por la vida, según quiera apreciarse). Por ello, si hemos de recurrir al Béisbol para tratar el tema del suicidio como algún tipo de liberación**, no podemos perder de vista que el tema sólo puede ser abordado en tanto re-presentación del mismo. Por ese motivo, preferimos distinguir entre la presentación de una teoría del suicidio y la re-presentación desde la óptica del Juego de Pelota de una teoría del suicidio, a la cual para distinguirla de la primera, la hemos denominado “teoría del suicidamiento”, tomando así prestada la categoría de “suicidamiento” del libro “Águila contra el hombre. Poemas para un suicidamiento”, de la autoría de Leopoldo María Panero.
Los griegos de la antigüedad distinguían entre el tiempo lineal, cuantitativo y cotidiano, llamado cronos (“kρόνος”) y el tiempo indeterminado, cualitativo y relevante, muchas veces el tiempo del peligro, llamado kairós (“καιρός“). El kairós es algo muy semejante al tiempo-ahora (“Jetzteit”) de Walter Benjamin, como interrupción del continuum de la historia, y muy semejante también al “Pachakuti” de los pueblos andinos, como tiempo de la inversión fundamental del orden de las cosas. ¿Pero todo esto qué tiene que ver con el Béisbol? O, mejor dicho, ¿qué tiene que ver el Béisbol con todo esto?
Pues bien, el Béisbol también cuenta con un tiempo en el que el propio tiempo transcurre como si no hubiera tiempo, es decir, el Béisbol cuenta con instantes en donde el continuum del juego parece romperse y en donde se abren espacios de oportunidad para el tiempo mesiánico, el tiempo de los héroes, el tiempo de los liberadores. Un cuadrangular en la novena entrada para dejar tendidos a los rivales es sin duda alguna un acto de liberación, pero en ese tipo de jugada no se aprecia el tiempo del peligro, el tiempo ahora, al menos no de forma clara o regular. En cambio, la jugada por excelencia capaz de llevar al extremo y de forma contundente ese tiempo discontinuo tiene un nombre: squeeze play. Esta jugada, por sus características, en nuestra opinión, es justamente la más indicada para pretender la elaboración de cualquier posible teoría del suicidamiento.
El 8 de febrero de 1986, en la quinta jornada de la Serie del Caribe, celebrada en Maracaibo, Venezuela, se enfrentaron las Águilas de Mexicali, campeones de México, y las Águilas del Cibao, campeones de República Dominicana. El juego estaba empatado a siete carreras en la novena entrada. Mexicali cerraba la entrada al bate y logró colocar al corredor John Kruk en tercera con uno fuera. Vino a batear el Almirante Nelson Barrera. Todos esperaban que Barrera buscara el batazo largo para traer al pentágono la carrera, aunque fuera con un fly de sacrificio a los jardines, pero Barrera, tras batear un foul, ejecutó un toque de bola en la modalidad de squeeze play. Fue el tiempo del peligro, el tiempo del todo o nada, pues John Kruk, un peso completo, desde tercera se lanzó como locomotora hacia home mientras la bola tocada por Barrera rodaba lentamente entre el pitcher y la primera base. Los dominicanos fueron sorprendidos, sacados literalmente del tiempo continuo y enfrentados al tiempo-ahora creado por los mexicanos. El corredor anotó y Mexicali dejó tendidos en el terreno a los del Cibao. En el siguiente juego, contra el equipo de Puerto Rico, los Indios de Mayagüez, Mexicali se coronaría campeón de la Serie del Caribe de 1986 al vencerles en 10 entradas con hit productor del Paquín Estrada. Al más puro estilo mesiánico, todo se había consumado.
En el idioma inglés la expresión squeeze play denota la idea de una jugada apretada en cuanto a su desenlace, denotando así también la idea de un tiempo-ahora. En el idioma español esto es llevado hacia un más allá, al llamarle a la jugada “toque suicida”. Justo a partir de aquí podríamos empezar a plantear materiales para una teoría del suicidamiento.

La invención del squeeze play se suele atribuir al mánager de los Yankees, Jake Reid, quien la mandó ejecutar en la Serie Mundial de 1931. Probablemente la jugada tenga orígenes más modestos, tal y como plantean otros que la atribuyen al Béisbol universitario de los Estados Unidos o al Béisbol de las ligas infantiles. El squeeze play implica una maniobra de realizar un toque de pelota con un corredor en tercera base, procurando hacerlo de forma tal que dicho corredor tenga el tiempo suficiente de llegar a home y anotar. En esa línea, la filosofía beisbolera estadounidense distingue entre dos categorías: el squeeze play seguro, en el cual el corredor de tercera no se lanza al plato sino hasta el momento en que el bateador hace contacto con la pelota; y el squezze play suicida strictu sensu, en el cual el corredor no espera a que el bateador haga contacto, por lo cual se lanza al plato en cuanto el pitcher hace el movimiento para lanzar. La distinción referida nos parece un tanto arbitraria en el uso de los adjetivos, pues en ambos casos hay elementos de riesgo evidentes de que la jugada no prospere, y por tanto no encontramos apropiado el calificar a una de las jugadas descritas como segura, cuando no es segura ni mucho menos. Desde luego, alguien podría plantear que se trata de una seguridad relativa. No obstante, consideramos algo más afortunada la categoría de “toque suicida” del idioma español. Ahora bien, también es evidente que dentro del toque suicida hay distintos extremos de riesgo, de ahí que quepa hablar de una teoría del suicidamiento, y de que, en cambio, resulte difícil desde la otra perspectiva hablar de una teoría del aseguramiento relativo, lo cual suena más a una suerte de filosofía bancaria que a una filosofía del Béisbol.
El toque suicida puede ser ejecutado en cualquier inning del Juego de Pelota y en cualquier circunstancia del marcador, pero la apertura hacia el tiempo-ahora se ensancha cuando el toque suicida es realizado en la novena entrada, especialmente en la novena baja, y cuando el marcador está empatado o cuando el otro equipo está arriba por una carrera –de hecho habría mayor peligro en este último caso por el riesgo mismo de la derrota en caso de fallar la ejecución la jugada–. De alguna forma, se cierra entonces el problema filosófico original al plantearse el mánager o el pelotero el dilema de si el Juego ha de seguir siendo vivido en el continuum presente o si es mejor romper con este mediante el toque suicida. La jugada individual además adquiere los tintes colectivos observados por Durkheim para el problema del suicidio. El toque suicida de uno se torna potencialmente en un toque suicida originado en un “nosotros” y con consecuencias para ese “nosotros”.
La cuestión referida puede ser llevada a extremos insospechados cuando hay dos outs en la pizarra, o más aún, cuando ya hay dos strikes en contra del bateador, y cuando el corredor encima es lento de piernas, como era el caso de John Kruk en la Serie del Caribe de 1986. ¿Pero qué puede empujar a un mánager o a un bateador a una decisión de este tipo? ¿Liberarse del estado actual de cosas? ¿Sorprender al rival mediante un pensamiento más allá de la totalidad presente? ¿Realmente se trata de un pensamiento desde la exterioridad o de un pensamiento heterodoxo? ¿El toque suicida, al emplear el factor sorpresa, no contiene la paradoja de reducir el carácter de suicida de la jugada? Más todavía, si el arte de la guerra es el arte del engaño (Sun-Tzu dixit), ¿no es el squeeze play el súmmum de una guerra de liberación? Una teoría del suicidamiento pretendería dar respuestas a estas y otras preguntas similares, a la vez de ofrecer un marco de referencia para tratar problemas más abstractos.
El toque suicida permite hablar en términos de metáforas de liberación –además de ser por sí mismo una estrategia de liberación– y de re-presentaciones heroicas y mesiánicas. La ejecución afortunada de ese tipo de jugadas ha permitido la construcción de leyendas capaces de persistir en la memoria. ¿Pero quién recuerda las jugadas fallidas? Esto ya es materia aparte. El toque suicida fallido representa un cierto drama muy particular: sus actores ni siquiera pueden considerarse los oprimidos de la historia. Un toque suicida fallido no cuenta con el prestigio de un error fatal, como sí lo tiene un error de fildeo a lo Bill Buckner, dejando escapar la bola en la Serie Mundial de 1986. No, un toque suicida fallido pertenece al campo de los actores excluidos y olvidados de la historia, no por falta de valor en el acto, sino porque en el fondo el mesianismo y el deseo de liberación inherente a la naturaleza humana no pueden aceptar el fracaso de un intento de ruptura con el tiempo continuo del sistema dominador. El toque suicida fallido está destinado a un falso olvido: no dará nunca lugar a una enciclopedia histórica o a una arqueología de los fallos de ese tipo, pero estará siempre presente, como un dispositivo disimulado capaz de re-articularse en el futuro bajo la tradición de aquellos toques que corrieron con mejor suerte en el pasado. Quizá en el fondo sea como apuntaba Walter Benjamin: “Hay que definir la imagen dialéctica como el recuerdo obligado de la humanidad redimida.”

Texto publicado originalmente en la revista electrónica “Aldea”.




* Ya en otros textos (consultar el libro “Dime que no fue así, Joe”) hemos planteado la existencia de una filosofía y de una teología beisbolera. De forma un tanto simplista, podríamos resumir dicha pretensión en que en el Juego de Pelota existe una suerte de amor a la sabiduría y de ciertos cultos que rebasan lo profano.
** Liberación en tanto determinación, y por ende, en tanto negación. Una determinación implica la negación de todas las demás posibilidades. El suicidio niega la vida en tanto esta ya no es considerada digna por el suicida, con lo cual este pretende negar las negaciones de la vida, aunque al final es posible que sólo termine por afirmar la nada. Chocar de cara con la nada es el riesgo propio de cualquier pretensión de liberación.

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